Vedere. Imparare a Vedere, assicurarsi il tempo per posare lo sguardo sulle cose, stabilire la giusta distanza tra sé e gli oggetti. Riuscire a cogliere le tracce del vento che ha scompigliato le fronde degli alberi, il silenzio che regna sulla neve, come il calore del sole che scalda la montagna. fotografare non è riprodurre, il realismo per quanto comunemente si creda non è possibile. Possibile è soltanto creare di nuovo ciò che reale ci appare, perché la realtà ci capita una volta sola davanti agli occhi. del resto tutti possono essere fotografi, basta lo strumento, ma la fotografia creativa, che si avvicina all’arte, come quella di Arrigo Giovannini, non è un semplice specchio che riflette la realtà. virtù dell’autore è quella di saper interpretare ciò che vede e di mostrarlo agli altri in una chiave non scontata; un linguaggio sconosciuto che si comincia a comprendere nel momento in cui si comincia ad amarlo, a fotografarlo.
Se da sempre Giovannini si confronta col paesaggio padano (il fiume, le corti, la campagna), ora si scopre il suo amore ai più nascosto, quello per le alpi e l’ambiente dell’Alto Adige.
Il paesaggio è una visione soggettiva, una proiezione che svela un legame con un territorio, sia esso conosciuto o immaginato e Giovannini lo ha fotografato in punta di piedi, senza intromissioni.
I luoghi raccontati vivono della freschezza del pensiero di chi ha cercato e finalmente riscoperto se stesso, una conferma della qualità e delle modalità del suo fotografare; della sua ricercata poetica fotografica.
Arrigo Giovannini è andato a cercare e l’ha trovata la composizione rigorosa, la pulizia della visione, la razionalità della inquadratura che riordina anche il caos di certi scorci; la natura che si fa docilmente dominare dall’opera dell’uomo, quella serenità interpretativa che fosse assieme vicina e lontana ai lavori
sul grande fiume che lo hanno reso noto.
Queste immagini montane, attraverso il suo obiettivo, si trasformano in terra incantata, abbagliata di colore, meravigliosamente geometrica. l’effetto finale, per paradosso, è quello di un quadro, una grande invenzione artistica. più che scatti le foto di Giovannini sembrano dipinti, caratterizzati da luci, forti contrasti cromatici, linee geometriche, rigore formale e essenziale; come la presenza della neve che diventa una sensazione più che una percezione, data la sua immaterialità che prende corpo da quello che sta sotto e resta sotto, affiorando con qualche segno di una forma in superficie. l’aspetto inquietante del bianco come assenza visibile del colore e al tempo stesso come fusione di tutti i colori, nonché della sua ipnoticità abbagliante e stordente, o come il cielo di un azzurro potente, e le ombre sui prati che sembrano dipinte col pennello. Un mondo di segni che l’uomo ruba alla natura e lascia come storie.
Da qui il salto, la realtà che diventa astrazione, che diventa segno e linea, ma senza ridurla ad “un’entità astratta”, rendendola falsa o non riconoscibile nei suoi caratteri essenziali. Arrigo Giovannini come pellegrino in cerca delle proprie radici si confronta con una realtà geografica che è anche una eccezionale metafora dell’uomo, dei suoi desideri, delle sue paure; il paesaggio montano come paradigma dell’esperienza della solitudine e dell’abbandono. sogno di libertà totale, ma anche luogo di chiusura, di una interiorità raccolta, da scoprire nel silenzio della nebbia, ma anche gettata sulla vertiginosa verticalità della parete rocciosa.
In questo “viaggio” per immagini lo spettatore parte con la convinzione di esplorare un luogo reale: la montagna, ma alla fine ciò che incontra è un paesaggio interiore. un paesaggio fatto di silenzi e tranquille solitudini, in cui il tempo sembra allungarsi all’infinito; la faticosa ricerca di un luogo in cui vivere.
Lorena Corradini